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Sito Web Ufficiale di Elisabetta Chicco Vitzizzai

LA CRITICA

L'antenato

Renzo Guasco (1940)

Nel suo studio vidi una volta uno squallido autoritratto, pallidissimo, con la bombetta nera calata sulle orecchie ed i baffi sottili; faceva pensare ad un artista di varietà per cinematografi di barriera, ad un domatore di cani.
Quel pomeriggio era tale l'atmosfera del suo studio.
Il pastello di una donna con un boa bianco al collo riportava la fantasia alle immagini della Scena Illustrata, alle Mondane dell'Ottocento, alle vetrine dei profumieri.
Usciva dall'ombra un vecchio quadro in verde e nero, di una sensualità deserta e tormentata, di una cupezza calvinista, come in alcuni paesaggi che tiene in casa o nel gruppo della Famiglia. Un allievo di Casorati educato dai gesuiti in un'atmosfera da controriforma; i suoi primi nudi lividi sono visti da una torbida fantasia adolescente alle soglie di un Inferno spagnuolo. La linea del suo disegno è sottile e crudele. Dovrebbe inciderla nel rame.
Le nature morte che tiene in casa sono un grande atto di ottimismo, di fiducia nella vita. Tutto è ricreato splendente: le arance, gli zucchini, il cavolo, i fiori si dispongono in un felice arabesco; i colori hanno la luminosità e la pesantezza delle ceramiche.
Un giorno, davanti a un suo quadro, tracciava col dito una linea orizzontale “Questo rapporto è buono, diceva, quest'altro anche, questo un po' meno.”
Il cappello giallo a fiori bianchi, il cangiante della seta color fucsia, il verde prezioso della spilla. Ritratto che è ormai una “presenza” nella mia casa. Il giallo del cappello sul giallo del fondo, sull'oro della cornice: variazioni delicatissime su di un unico tema.
I guanti bianchi nel ritratto della moglie. Dietro, lo sfondo rosso fiorisce spontaneamente di fiori sconosciuti. (Quanto, in questo momento, deve a Matisse?)
L'altro ritratto della moglie, coperta da un mantello o tappeto, ha insieme la durezza della stuoia e il gusto cromatico dei tappeti orientali.
I suoi pastelli da salotto- musica per clavicembalo. Rosalba Carriera e Renoir.
Gli piacciono i lampadari a fiori, frutta, rose dipinte, i cristalli lavorati, i mobili del Settecento, le meringhe -così soffici e bianche, gli abiti da sera vaporosi, le rose appuntate sul petto.
Predilige i De Filippo e Menjou, suona la cetra, la chitarra, il pianoforte; porta un soprabito verde, possiede diecine di pipe.
I suoi ultimi quadri sono dipinti a cera, lievi e trasparenti.
Il colore si disintegra, si frantuma in tocchi estremamente variati; toni preziosi da gustarsi adagio come un confetto da sposa.
Brevi pennellate rosa si richiamano dal viso al fondo del quadro, tra una rete di gialli di vecchie stoffe e verdi freschissimi. La pittura a cera di Pompei, le pennellate più fluide e leggere che mai si sieno viste sul bianco marmo delle antiche divinità. Un chiaro, aurorale impressionismo su di una misura classica; De Pisis e Canova.
Dipinge seguendo sempre un dialogo interiore. Ragiona e discute mentre lavora. Tutto deve essere ad un tempo fantastico e motivato...

 

Mino Maccari (1961)

Ho sempre avuto simpatia e fiducia in Riccardo Chicco: è un uomo libero, intelligente, colto ed arguto.
La sua pittura riflette queste sue qualità, e perciò la stimo come stimo l’uomo. E’ una pittura vivace, estrosa, elegante; una pittura civile che una società civile deve apprezzare. I capricci coloristici di Chicco sono sempre garantiti dalla padronanza del disegno, che egli ha conquistato praticandolo senza soste e senza remore dalla fanciullezza alla presente maturità.
Vissuto nell’ambiente torinese, alquanto pesante in fatto di arti figurative, non ha avuto dubbi nel preferire l’isolatissimo Spazzapan, prima che il forte goriziano si lasciasse irretire nei fìlosofemi che hanno intorbidato le sorgenti e deviato il corso di tanta pittura.
Alimentata da un amore incondizionato per la natura vivente e visibile, come dimostrano gli eccellenti ritratti e i luminosi paesaggi, l’arte di Riccardo Chicco non corre certi rischi. Egli ha troppo buon gusto per «girare l’ostacolo», troppa coscienza della libertà e della dignità personale per farsi incasellare nei tristi archivi delle carceri non-figurative.

 

Massimo Mila (1967)

... C’è di tutto, in questa trentina di quadri: paesaggio e natura morta, nudo, figura, la città e la campagna, il lontano e il vicino, il pittoresco e il familiare, la Calabria e «i teit ‘d la Ciora»; Parigi, New York e Gerusalemme, i beatniks di Greenwich Village e la figlia del pittore col gatto, Cosenza, Casale, un frassino al Montoso e certi rutilanti interni di teatro, che paiono travolti entro un maelström di sangue. Unica presenza comune, il colore: un colore squillante che canta a voce spiegata, o più spesso grida, attraverso la materia densa di queste tempere forti, dove si compongono e si calibrano diverse gromme, sottoposte di volta in volta a variazioni di composizione materiale. Di qui quello spessore della pasta, quel forte rilievo di grumi compatti, che ha il potere d’intrigare e incantare il profano, per lo sforzo che vi fa la pittura di uscire da se stessa e di rubare il mestiere alla scultura con la disperata annessione della terza dimensione.
Eppure tutto questo addita, mi pare, una definizione, che è quella dell’espressionismo: un espressionismo nativo e spontaneo, che il pittore ha praticato da sempre, assai prima che diventasse una moda il rilancio latino di quell’esperienza nordica. E del resto si tratta di un espressionismo che non cammina pari pari sulle orme della stretta osservanza germanica, ma trae alimento altrettanto copioso da zone periferiche, forse fiamminghe, o russe, o magari spagnole. Che il grasso buonumore bolognese di Fasulèin possa suggerire il grottesco tragico di una maschera di Ensor, mi pare un bel documento delle fulminee commistioni culturali in  cui si esplica la pittura di Chicco, dei suoi scambi allucinanti e delle sue imprevedibili ibridazioni...

 

Angelo Dragone (1967)

... È un fatto che Chicco giunge tra l’altro a collegare ascendenze diverse, conciliandole nel nome dell’attualità e di un suo gusto sicuro. Se quindi anche di qui discendono tanti dei suoi spiriti più suggestivi, è poi con squisita personalità che Chicco accentua l’ironia di alcuni suoi personaggi quasi vernacolari o la modulazione cromatica che scandisce lo spazio d’un paesaggio, mentre chiama a vivere nella rorida luce multicolore di certi interni, la tenera ma ferma immagine dei suoi nudi femminili.
Chicco si direbbe abbia modi inconfondibili di dipingere un fiore, facendo sentire la delicata carnosità di una corolla, la forza d’uno stelo, l’ombra verde del fogliame, sia nel segno sottile e pastoso d’un conté, sia nella più dura materia, che oggi quasi ne fissa il plastico rilevo come accade in altre sue composizioni, dai nudi alle vedute di città, con una tecnica che informa la sua più recente attività riconducendola nell’alveo di esperienze e ricerche del più attuale interesse estetico.
Ad un certo momento Chicco sentì appunto l’esigenza di rendere con la sua pittura un’immagine più sensibile ai valori volumetrici della realtà. Ne studiò i vari aspetti, attraverso un modello in creta, per tornare poi al colore.
Un’acuta autocritica gli impedì di cadere nella traduzione pittorica del rilievo, perché per l’artista quel primo «Nudo» ricavato plasticamente dalla scultura mediatrice di pittura s’era manifestato subito come un qualsiasi altro oggetto di natura, capace di ispirare e di fornire nuove impressioni di luce e di colore.
La stessa materia cromatica, in un’operazione come questa, aveva assunto una caratterizzazione del tutto nuova, e con inedite proposte; dovute anche ai materiali – dalla gomma alla polvere d’amianto – che l’artista aveva addizionato al colore per ricavarne una sostanza meglio rispondente alle sue intenzioni.
Messo a punto lo strumento che poteva tornare a dar libero corso alle sue intenzioni pittoriche come al suo intenso e rapido modo di lavorare, Chicco se ne è quindi venuto servendo secondo la sua più autentica natura.
Alla invidiabile estensione della sua tavolozza, l’artista ha dato di volta in volta i toni più brillanti, per spegnerli altrove in una materia preziosamente lavorata...

 

Luigi Carluccio (1971)

… Questa libertà fa parte della biografia di Chicco ed è un aspetto della libertà di cui può fruire, avendo ragionatamente rinunciato a incasellarsi in una tendenza, a mummificarsi in un’epoca o nel gusto di un’epoca; ad essere cioè pittore, niente altro che pittore, la cui vena tuttavia ha una costante di lepida e frizzante satira, di curiosità stravagante... Nel suo continuo variare, il mondo è un grande spettacolo pieno di luci, di colori, di forme che si dissolvono nella luce e nel colore, e nel moto del momento che passa. Nel pieno possesso dei suoi mezzi pittorici Chicco sembra vivere all’interno di questo gran teatro. Dall’interno, egli lo forza, lo mette in tensione anche matericamente, con spessori e sciabolate nitide, perché la luce e il colore possano vibrare ed acquisire così un soprappiù di vitalità.

 

Albino Galvano (1972)

... Personaggi di balletto o di mascherata, in un certo senso, quelli che popolano molti quadri di Chicco: ma di una festa in maschera in cui i travestimenti non sono occultamento ma rivelazione ed esasperazione dei tratti di un carattere (Una cognata sacramentina...), di un temperamento. Espressionismo, gusto dell’ironico e del grottesco? Forse, ma Chicco, che ha tutte le carte in regola per un’attività di storico dell’arte, è l’ultimo a cercare, o semplicemente a tollerare, di sentirsi «collocato» in un reticolo di ascisse e di ordinate rispetto all’arte contemporanea. Kirchner e Grosz, Van Dongen e il suo e nostro amico Maccari potranno anche esser più vicini di altri al suo modo di concepir il senso della pittura (e perché non quel Giovanni Grande, un poco dimenticato, che fu suo maestro prima dell’incontro con Casorati, e con il quale Chicco riconosce ancora il proprio debito?) ma appunto quel sicuro ancoraggio a un mondo, a un ceto torinese in cui è nato e di cui anche oggi mantiene nella vita l’inconfondibile stile, quell’ancoraggio che si esprime nell’iterazione attraverso gli anni del motivo dell’autoritratto  e, ora, nel gioco denunziato sin dai titoli, dei “ritratti di famiglia”, gli permette di essere solo se stesso, in un appartarsi schivo e altero, di fronte alle “ricerche” di tanta parte dell'arte contemporanea. Ne ha pagato e ne paga il prezzo, ma sa che quella fedeltà è la condizione del suo essere di uomo e di pittore...
Momenti e memorie, oppure ricordi di viaggio: il raccogliersi del tempo nella coscienza che si rispecchia in se stessa o l’aprirsi allo spazio nella curiosità del diverso (non eravamo appassionati della filosofia di Bergson nella nostra giovinezza, Riccardo?). Sempre questo muoversi fra tempo e spazio, fra il raccoglimento e l’avventura: la polarità che il filosofo teorizzò fra la dimensione della vita e quella dell’intelligenza agisce nello sgorgo della pittura di Chicco, come un fermento, uno stimolo produttivo...

 

Luigi Carluccio (1973)

… Ho un ricordo vivissimo di Chicco; un ricordo che  potrei già dire antico. Risale al 1928 o ‘29: la sua figura, tirata su magra e aguzza, accanto a un mucchietto di suoi disegni appesi alle pareti di un circolo ricreativo guidato in quegli anni dai padri gesuiti. Disegni anch’essi magri, tirati a sciabolate di matita, a grandi virgolature, che esprimevano una visione acre e amara della vita: nella figura umana, nei suoi atteggiamenti, nelle sue convinzioni. L'aggressività caricaturale era dunque in lui una forza dell'istinto. Anche dopo, quando lo rividi più volte nelle stanze della scuola di Casorati in via Galliari, al tempo in cui diventava sicuramente pittore, la lezione rigorosa, asettica, formalmente corretta e conclusa del Maestro non soffocava del tutto lo spirito caustico di Chicco...
Una volta ha anche illustrato i caratteri della sua poetica, definito i confini del luogo ideale, del linguaggio, della moralità, in cui poteva riconoscersi affine, anche se lontano: Ensor, Beckman, Grosz, Van Dongen, Kokoska, Ernst, Kayama. Delineava così un dominio nel quale eleganza e sarcasmo si mescolano, in cui i preziosismi linguistici e materici e la sottile indagine dei costumi si annodano e si inviluppano, generando immagini pungenti capaci di provocare nella stessa misura seduzione e repulsione...

 

Franco Torriani (1973)

L’ironia è il sentimento più caratteristico delle opere di Riccardo Chicco.
E questo quasi stupisce, anzi, “brilla” in un panorama (quello dell'arte italiana in genere), in cui l'ironia è scarsamente rappresentata. Nei lavori di Chicco, tutto, dal tratto nervoso e pungente all'uso virulento dei colori, si permea di humour, di immaginazione simultaneamente giocosa e triste. Quest'ultima affermazione, la si comprende meglio osservando che, nei soggetti di Chicco, si passa facilmente dal sorriso alla lacrima malinconica. Lo stesso ironico distacco con il quale l'artista guarda la realtà quotidiana, impedisce sia la risata sguaiata che il pianto dirotto.
Questo humour che troviamo dagli oli alla grafica, dai disegni graffianti alle caricature che Chicco esegue da anni per «Stampa Sera» e molti giornali, non sconfina mai nella canzonatura da baraccone e nemmeno nel sarcasmo disperato. Egli è indubbiamente uno dei primi che, in Italia, ha colto il messaggio espressionista (ricordiamo la sua lunga amicizia col Maccari), introducendolo nel nostro Paese. Il suo discorso, comunque, pur consapevole della notevole lezione dei Kirchner, dei Nolde, e così via... è sempre stato autonomo, fresco, penetrante. Se si vuole, la sua pittura tocca i problemi essenziali dell'individuo e della società, preoccupandosi di mantenere una certa eleganza (non solo formale) e senza reboanti affermazioni di fede pura. D'altra parte, quand'è autentica, l'ironia è molto democratica: permette di dissacrare e di vedere i limiti anche delle proprie opinioni...

 

Albino Galvano (1980)

... Il distacco che fu dell'uomo e insieme la sua tenerezza per gli uomini e per le cose si fa, negli acquarelli di viaggio come nei pastelli di fiori o di figure, segno distintivo di un linguaggio di pittore che, moltissimo avendo conosciuto e amato della pittura, riuscì sempre indipendente da maestri e da scuole, libero rispetto alle contingenze del tempo e delle vicende culturali.
Ciò non gli giovò certo -da un punto di vista tutto esteriore- in un tempo come quello a cui a lui e a noi toccò vivere, troppo abituato a schemi, classificazioni, incasellamenti. Ma fu anche il modo di salvaguardare la purezza di un amore per l'arte che ignorava, prima ancora di trascurarli, i compromessi di una cultura che non fosse il riflesso stesso della propria vicenda, del proprio stile d'esistenza.
Il discorso su Riccardo Chicco pittore è, in un certo senso, ancora tutto da fare e non sono queste poche righe di testimonianza che possono rappresentarne almeno un inizio. Ma quanto egli ha lasciato è un frutto prezioso di cui soltanto il tempo consentirà di apprezzare interamente sapidità e fragranza...

 

Enrico Paulucci (1985)

Con Chicco ci vedevamo quasi ogni giorno: infatti abitavamo in due palazzi che si fronteggiano su via Pomba, all'angolo di via Cavour.
Mia sorella aveva le finestre di camera sua proprio dirimpetto a quelle dell'alloggio di Chicco: e così erano allegri gesti di saluto attraverso la strada. Maria Cristina, quasi cento anni ormai, è un'autentica figura della favolosa “belle époque”, e Riccardo Chicco, di tanto più giovane, con quella sua bombetta viola, i baffoni provocanti e un certo suo elegante vestire un po' ricercato, pareva davvero uscito da una pagina di Maupassant, da un disegno di Lautrec, di Forain.
Così, una certa ammiccante nostalgia, una curiosa proposta di impossibili ritorni, di tempi senza cesure, si era stabilita fra le nostre case: tra il secolo dei landeaux e la realtà dell'oggi.
Lo incontravo dunque sovente, il caro e brillante amico di sempre: e lo ricordo, così come ancora recentemente accadeva, issato in bicicletta, i baffoni al vento, un largo gesto di saluto.
Non tocca a me oggi parlare dell'artista: ma come non ricordare e rimpiangere la sua squisita cultura, la versatilità del suo talento, l'eleganza e la spregiudicatezza delle sue ricerche pittoriche, la sua ironia e l'humour dei suoi disegni? A volte opere di una pregnante pittoricità, come nella vecchia “macelleria”, già della collezione Accame, a volte di un energico scattante espressionismo come nel grande pannello ora al Palazzo delle Esposizioni.
Ancora oggi, affacciandomi al balcone di via Pomba e guardando il tetto di fronte, sotto il quale per tanti anni aveva dipinto nel suo grande studio, ripenso allo squisito caro amico, al vero autentico pittore: e me lo immagino, mi si perdoni questo scivolone sentimentale, me lo immagino in alto, come in un dipinto di Chagall, lui e la sua bombetta viola, a volteggiare sui tetti della sua Torino.

 

Bruno Quaranta (2010)

Cent’anni. Un secolo. Era un figlio della Belle Epoque, Riccardo Chicco. Forse non a caso scomparve nel 1973, allorché sotto la Mole aleggiava un estremo, l’estremo, refolo di quella stagione, captato e lucidato comme il faut, come esige l’argenteria di famiglia, nella Donna della domenica di Fruttero e Lucentini.
Avrebbe voluto vivere fino a centododici anni. Dunque è ancora qui. Testimone felicemente ostinato di pittura, l’opera d’arte come un talismano. «Nasce perché dobbiamo morire - osserverà inaugurando una sua mostra nel 1964 -. E’ questa certezza a dare al nostro cervello il grado di lucidità indispensabile per tentare di “rallentare” di qualche attimo la fine della nostra presenza vitale, a creare qualcosa di disperatamente contrario al ritmo febbrile degli eventi».
Torino è il cardine della sua geografia. Sotto la Mole nacque, il 25 maggio 1910, si laureò in giurisprudenza prima, in lettere poi, discutendo una tesi sul Milizia, così polemico verso il barocco (Chicco vorrà forse annunciare - siamo nella città di Guarini, Juvarra, dei Castellamonte - il suo spirito bastiancontrario?), si sposerà, avendo due figli, insegnerà Storia dell’arte nei licei Alfieri e D’Azeglio, soprattutto obbedirà a se stesso.
La main street di Riccardo Chicco è via Cavour, al 19 la casa e l’atelier: «Quella strada che da via Roma solca un compatto agglomerato di case e avanza seria e composta come una signorina di buona famiglia fino al Po, concedendosi soltanto lo svago d’un incontro imprevisto con uno dei più bei giardini della città».
Di promenade in promenade, Riccardo Chicco svelerà le sue stimmate. Era un borghese di foggia gozzaniana, negli orizzonti angusti, nel culto delle abitudini, nelle figure in uniforme, fossero vecchie zie o ottusi presidi o inamidate educande che covano le bambinacce attingendo sommamente, riconoscendovi «la zavorra del suo volo», come Mario Soldati dirà delle buone cose di pessimo gusto per il Bel Guido. Era un libertino d’indole settecentesca, secondo la raffigurazione di Arrigo Cajumi: «Non sappiamo perché, e che mai siamo venuti a fare quaggiù: quindi cerchiamo di passare il tempo nel modo più consono ai nostri gusti. Io non ho altra morale». Interpretava una nota conradiana, specialmente indigena, il cortocircuito fra anarchia e ordine, fra gerarchia e diserzione. Svettava come alunno maiuscolo del Diletto, quale auspicava Eugenio Montale sul Baretti gobettiano. Si stagliava come un europeo di Torino: a Londra sarà folgorato dalla luce di Turner, a Parigi frequenterà la scuola di copia del Louvre, a Monaco studierà Rubens, i fiamminghi, i veneti del Cinque-Sei-Settecento.
Si è evocato Soldati. E’ possibile distinguere i torinesi cromaticamente. Coloro che vedono la città tinta inesorabilmente di grigio. E coloro che nuotano in una tavolozza accesa, financo infuocata. L’autore della Busta arancione (a proposito di diverse tonalità) non esitava: «Per coloro che vi sono nati, o che vi sono vissuti a lungo e hanno imparato a conoscerla, c’è nel suo stesso nome - Torino - qualcosa di rosso che ride». Riccardo Chicco spargerà orme non meno iridescenti: le scarpe gialle, l’impermeabile color zucca, le camicie rosa o verde pastello, l’orologio (ulteriore nota di colore) sopra il polsino, di alcune stagioni anticipando l’Avvocato.
Pare che Riccardo Chicco assomigliasse ad Amedeo Nazzari. O forse è proustiano il suo modello, Robert de Montesquiou secondo Giovanni Boldini, i baffi incurvati all’insù, la fronte alta, le mani sottili, la posa attoriale. Come il signor conte parigino, un dandy, come Des Esseintes (altra metamorfosi del conte) un esteta i cui «bisogni di eccentricità erano trasporti, slanci verso un ideale, verso un universo sconosciuto, verso una beatitudine lontana, desiderabile come quella che ci presentano le Scritture».
Fino a un certa soglia sono gemelli Robert de Montesquiou e Riccardo Chicco. Ché l’uno - nella finzione letteraria il barone di Charlus - è attirato dagli «uomini-donne», mentre la sua eco all’ombra del Caval ‘d brôns è un Andrea Sperelli, ovvero habere non haberi, o, riapriamo la Recherche, un collezionista di “origini del mondo” (non, gozzanianamente, di rose non colte, o pavesianamente, di rose spinate, lui che al vizio assurdo oppose il vizio della vita): «Certo, è più ragionevole sacrificare la propria vita alle donne, che non ai francobolli, alle tabacchiere antiche o anche ai quadri e alle statue. Ma l’esempio delle altre collezioni dovrebbe insegnare a cambiare, a non avere una sola donna, ma molte».
Sarà Felice Casorati il suo maggiore maestro d’arte, accostato fra i diciotto e i ventuno anni, dopo gli abbecedari di Vittorio Cavalleri e di Giovanni Grande. Anzi: Riccardo Chicco ricorderà l’artefice di “Silvana Cenni” come il maestro. Onorato non imitandolo, qua e là accennandovi (le donne dei “Colloqui” che rammentano talune modelle e nudi nello studio).
Casorati ha respirato la vis politica intransigente di Gobetti. Chicco è un impolitico, semmai un montaliano uccello di passo che urta ai fari nelle sere tempestose, tenendo in gran dispitto gli schizzi di fango, l’estetismo d’abord opposto alla politique d’abord, navigando in solitaria nella Storia che crocianamente, nonostante tutto, è Storia di libertà. Casorati esige anime estatiche e ferme. Chicco è il dominus di un teatro o di un pianeta circense. Casorati è la perfetta classicità. Chicco è il capriccio, «il colore che si scapriccia», avvertirà. Casorati - come non sfuggirà a Massimo Mila - è un’officina «spoglia» e «magra». Chicco è esuberante, perché no?, incendiario. Salvo improvvise, ma meditate, parentesi: «E con chi si meraviglia o peggio s’allarma per la mia poetica fuori ordinanza, mi scuserò di riposare di quando in quando l’occhio, affaticato dalle lanterne cercatrici, su di un’affettuosa dagherrotipia, magari snidata da una pagina della bibliotèque rosa...»).
Era un occhio visionario, il suo. La vita non meno stupefatta dell’arte. La flânerie ideale di Riccardo Chicco avrà come meta ideale, in fondo a via Cavour, l’istituto claustrale delle Sacramentine o Adoratrici o Vigilanti. In particolare, lo colpirà il variopinto abito della Superiora e della Vicaria (clamide di panno rosso, veste di lana bianco crema, soggolo candido e vastissimo velo nero) che gli richiama alla mente «certi uccelli africani pinti degli stessi colori e straordinariamente canori».
E’ espressionista in senso lato e stretto l’albero genealogico di Riccardo Chicco (manifesterà una sicura maturità nella mostra «Arte italiana d’oggi. Premio Torino» del 1947). Egli stesso lo nomina: «Ensor, Beckmann, Grosz, Van Dongen, Kokoschka, Ernst, Kayama, il profilo allargabile ma irrestringibile - dichiarerà - di una coiné, di un patrio linguaggio, cui mi professo avvinto».
Visitiamone la galleria: «Bimbi alla ricerca delle libellule», «Nozze», «Rosa», «Il sosia», «La trapezista», «L’autoritratto onirico», «Nudo coi capelli rossi», «L’odalisca»...Un’umana commedia in maschera. Figure, in primis. Narrate con un segno parodistico, paradossale, paralogistico. Svelate conducendole a un passo dalla deflagrazione. Scombinate, scarruffate, negli abissi come nella profondità della superficie.
Chicco, che negli anni Cinquanta, di mosaico in vetrata lascerà numerose impronte sulle case d’abitazione, dispiegherà anche felici energie nella caricatura. Coltivata, chissà, spugneggiando un «varietà» del prediletto Petrolini: «...ne ho fatte di ogni genere, d’ogni colore, d’ogni sapore e d’ogni odore. Prendo di fronte, di dietro e di profilo re, duchi, principi e regnanti; abbozzo le celebrità, sbozzo gli idioti; in due tocchi fò una donna, un tocco avanti e un tocco dietro, qua una linea retta, qua una curva - io ho un debole per le curve - ed ecco, là, è fatta».
Di tipo in tipo, bracconiere di personaggi, quando c’erano, quando il copione non era liquido, nel détail afferrando l’identità, il carattere, il refrain: il naso a goccia di Bramieri, le sopracciglia a molletta di Dapporto, la tristezza canina di Totò, il viso piallato di Silone, la capigliatura “feuilles mortes” di Arthur Rubinstein, il profilo-zanzara di Von Karajan, l’emiliana mole buddistica di Zavattini, la capigliatura vaporosa che riflette il seno, o il seno che riflette la capigliatura vaporosa di Brigitte Bardot, il cipiglio marmoreo di Benedetti Michelangeli...
Il marchese Paulucci si immaginava «il vero autentico pittore» Riccardo Chicco «in alto, come in un dipinto di Chagall, lui e la sua bombetta viola, a volteggiare sui tetti della sua Torino». Era, l’estravagante ulisside (Joyce dominante, con James, in biblioteca) un cavaliere notturno, che come il confrère Mollino amava scegliere clienti fantasma, «pieni di deferenza e di rispetto per la nostra misteriosa professione», non lesinando «commissioni di fantasia».
Una tribù di chicchi individui, come li identificherebbe Gadda, ciascuno smisuratamente «a sé», al lume della consapevolezza leonardesca a Torino lustrata dal «caro amico» Mino Maccari: «Salvatico è colui che si salva». Ancora e sempre - come si ritrasse in un biglietto beneaugurante del 1972 - Riccardo Chicco pedala verso l’Olimpo, verso Apollo dio delle muse. Ma non di rado volgendosi indietro, augurandosi che un bagliore d’eleganza, di stile, di decenza si accenda, sospingendolo a tornare, a ri-essere.

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